Alla fine del ‘700 Livorno era la seconda citta’ della Toscana. Livorno era famosa nel resto del mondo quanto Firenze. Non a caso costituiva una tappa obbligatoria del Grand Tour che i viaggiatori stranieri facevano in Italia e del suo nome esistevano varie traduzioni: prerogativa riservata solo alle metropoli e alle capitali. Leghorn in inglese, Livourne in francese, Liburna in Spagnolo. Era anche uno dei porti piu’ noti d’Europa e piu’ frequentati del Mediterraneo, il secondo dopo Marsiglia, e il centro piu’ cosmopolita nel quale si potesse abitare. Una babilonia di lingue, di razze, di costumi, di culti, La patria di tutti, perseguitati politici o religiosi, avventurieri, diseredati, profughi, individui senza scrupoli, criminali o ex criminali. Per popolarla e svilupparne il porto che rimpiazzava quello di Pisa, mangiato dal mare, nel 1590, Ferdinando de’Medici aveva infatti emesso una legge che assicurava ai residenti privilegi assai insoliti: esonero dalle tasse, alloggio gratuito e corredato d’un magazzino o d’un negozio ai pescatori e ai marinai con famiglia, annullamento dei debiti inferiori a cinquecento scudi, condono delle condanne penali subite in patria o all’estero purche’ non derivassero da reati connessi all’eresia o alla lesa maesta’ o al conio di falsa moneta. E nel 1593 una seconda legge che estendendo la cuccagna a qualunque forestiero pronto a diventar residente aggiungeva le seguenti concessioni: diritto d’asilo, liberta’ di mestiere e di culto, regime giudiziario conforme agli usi e alle leggi del paese di provenienza, franchigia di tutte le sue merci depositate in dogana, permesso di esportare senza imposte e senza gabelle i prodotti importati da non piu’ di dodici mesi, nonche’ protezione dai pirati per chi viaggiava sulle rotte seguite dalla flotta dei Cavalieri di Santo Stefano cioe’ le rotte del Mediterraneo. Risultato, nel giro di pochi anni Livorno s’era riempita di fiorentini, lucchesi, genovesi, napoletani, pisani, veneziani, siciliani, ebrei fuggiti o espulsi dalla Spagna e dal Portogallo, Nel giro di pochi decenni s’era riempita anche d’inglesi, francesi, tedeschi, svizzeri, olandesi, scandinavi, russi, persiani, greci, armeni, il porto s’era sviluppato piu’ di quel che Ferdinando avesse ardito sperare e da quasi due secoli offriva uno spettacolo unico al mondo; brigantini, fregate polacche, pinchi, sciabecchi, filughe, tartane, velieri d’ogni tipo all’ormeggio. Cosi’ fitti, cosi’ numerosi, che a vele serrate i loro alberi sembravano tronchi d’una foresta senza foglie. Altre navi che a vele spiegate entravano nella rada o ne uscivano portando tonnellate e tonnellate di ricchezza: il vino e l’olio del Chianti, il baccala’ e le aringhe di Terranova, lo stoccafisso della Norvegia, il caviale della Russia, lo zucchero di Cuba, il grano dell’Ucraina, e della Virginia, l’avorio dell’Africa, i tappeti della Persia, l’oppio e le droghe di Costantinopoli, l’incenso e le spezie delle Indie Orientali, E sul molo, lungo le banchine, un brulicar di scaricatori, marinai, mercanti, mezzani, sensali, passeggeri coi tricorni, i turbanti, le parrucche, i burnus, i barracani. Un bailamme di suoni, rumori, litigi, risate, bestemmie urlate in qualsiasi lingua, Un miscuglio di piacevoli odori e soffocandti miasmi, puzzo di pesce e di fango, profumo di frutta e di fiori, Un baccanale di vita.
Coi suoi quarantaquattromila abitanti, cifra che escludeva gli stranieri in transito e i marinai che vivevano a bordo, nel 1773 era fantastica anche la citta’ dentro le mura: fino al millecinquecento un borgo di pescatori e un penitenziario per i fiscalini cioe’ gli schiavi ai remi delle galere. Cinta da un maestoso fosso d’acqua salata, il Fosso Reale e nella zona chiamata Nuova Venezia percorsa dai bei canali con graziosissimi ponti, sembrava un’isola nata per sortilegio in mezzo alla terra ferma. E tutto li’ esprimeva novita’, eccentricita’, benessere. Le case alte perfino sei piani, sempre fornite di sevizi igienici e vegri alle finestre, che insieme alle palazzine ora rosa e ora azzurre bordavano ogni canale proprio come a Venezia. (Unica variazione, il fatto che ne fossero separate da strade dette Scali e chiuse da una spalletta). I magazzini sottostrada che su quei canali si affacciavano lambiti dale acque, i navicelli, cioe’ i barconi che a quei magazzini approdavano per caricare o scaricare la merce e che attraverso rogge connesse al fiume Arno facevan la spola con Pisa e Firenze. La struttura razionale che gli architetti medicei avevano dato al resto del complesso urbano cioe’ le via che parallele o perpendicolari fra loro agevolavano il traffico, e in particolare l’ampia via Ferdinanda (o via Grande) che da Porta Pisa andava dritta al porto. Circa settecento passi di selciato su cui i carri e le carrozze sfrecciavano in due sensi passando dinanzi a edifici fastosi, locande pulite, negozi colmi di ogni bendiddio. Poi la gran piazza al centro, la piazza d’Arme, che impreziosita dalla cattedrale si stendeva per ben trecento-sessanta passi di lunghezza e centodieci di larghezza. I massicci bastioni che cingendo il Fosso Reale si ergevano con immense terrazze dove potevi andare a passeggio e goderti dall’alto la baia col faro, la tonda torre di Matilde, il rosso baluardo dell Fortezza Vecchia, il santuario di Montenero, le squisite ville degli iInglesi e degli olandesi. Nonche’ l’ineguagliabile scenario delle moschee e delle sinagoghe, delle chiese cattoliche e protestanti, copte e greco-ortodosse: simbolo d’una tolleranza e d’una convivenza altrove sconosciute. Non esistevano ghetti a Livorno. Nonostante i quartieri nei quali alcuni etnici mantenevano le loro usanze, il quartiere de’ greci. il quartiere degli ebrei, il quartiere degli armeni, non si indulgeva in pregiudizi razziali o a pratiche discriminatorie. Non si rispettavano neanche le leggi suntuarie, Ricchi e poveri potevano vestirsi di velluto o seta o broccato, portare fiocchi e nastri e cappelli e piume, e insieme al lusso molte altre cose erano permesse. Il gioco d’azzardo , ad esempio. Il libertinaggio, i bordelli. Nelle altre citta’ del Granducato le donne pubbliche venivano arrestate e messe alla gogna come i giocatori, i libertini, gli adulteri. A Livorno invece circolavano e adescavano senza problemi. Lo stesso vicario dell’Inquisizione lo consentiva “in segno di riguardo verso gli stranieri e i marittimi che in questo sito si fermano per qualche giorno o qualche settimana”.
Infine, e sebbene non ci fossero universita’,sebbene la cultura si concentrasse a Pisa, Firenze e Siena,vi fioriva il commercio dei libri. A meta’ del secolo era sorto infatti un circolo di letterati decisi a diffondere le idee dell’Illuminismo, il tipografo Marco Coltellini aveva fondato una casa editrice con lo stampatore Giuseppe Aubert, e in Italia le prima edizioni delle piu’ importanti opere illuministiche si dovevano a oro. Erano stati Coltellini e Aubert a pubblicare nel 1764, Dei delitti e delle pene del Beccaria. E nel 1763 avevano pubblicato le Meditazioni sulla felicita’ di Pietro Verri, nel 1771 le Meditazioni sull’economia politica, due anni dopo il Discorso sull’indole del piacere e del dolore. Nel 1770 s’erano addirittura assunti l’impegno i ristampare integralmente l’Encyclopedie: dai preti giudicata eretica e scandalosa, quindi apparsa solo in Francia e a Pietroburgo. Ne’ e’ tutto. Perche’ nella bottega del Coltellini trovavi anche gli introvabili testi del pensiero libertario: gli opuscoli e i pamphlets che il non meno audace libertario Pietro Molinari stampava a Londra poi faceva spedire a Livorno, Genova, Civitavecchia, Napoli, Messina. La materia di Dio, L’inferno spento, Il paradiso annichilato, Il purgatorio fischiato, I santi banditi dal Cielo, Spaccio de la Bestia Triofante: roba da togliere il sonno allo stesso Satana. Non a caso nel 1765 quand’era venuto da Londra con la scusa di recarsi a Venezia e comprarvi uno stock di perle orientali, in realta’ per portare varie casse di quei testi, Mazzei l’aveva vista brutta. Accusato dal Sant’Uffizio di contrabbandare volumi perniciosi cioe’ contrari alla religione e al buon costume, smerciarli in quantità’ tali da impestarne l’intero paese, era dovuto fuggire a Napoli e restarvi tre mesi. Quanto a Marco Coltellini e a Giuseppe Aubert, Pietro Molinari, avevan corso il rischio di beccarsi il carcere a vita. Pero’ bando alle chimere: la stragrande maggioranza dei quarantaquattromila abitanti che la citta’ contava nel 1773 non assomigliava per nulla a certi personaggi. Di libri la gente ne comprava pochi, di raffinatezze intellettuali ne ostentava pochissime, e per sapere quale fosse la nomea che Livorno aveva in quegli anni basta leggere il giudizio che ne da’ Pietro Leopoldo nelle sue Relazioni sul governo della Toscana. Ecco qua, appena riveduto e corretto per rendere piu’ comprensibile il suo Italiano non eccellente: “I forestieri non ci stanno che per interesse personale, senza alcun attaccamento al paese, e non hanno altra veduta che di var molti quattrini in forma lecita o illecita e poterli spendere in lusso o capricci o stabilirsi altrove con i guadagni, Regna fra di loro la discordia, la malignita;, lo spirito di partito e ogni sistema e’ buono pur di fare i quattrini presto: scritture false, conti simulati o alterati, lettere e calunnie per screditarsi reciprocamente… I procuratori, gli scritturali eccetera ne imitano l’esempio. I preti sono ignoranti, il popolo e’ ignorantissimo, punto religioso, superstizioso, fanatico, rissoso, dedito ai ferimenti, al furto, al gioco, al libertinaggio e ha bisogno d’esser tenuto con grandissimo rigore”.
Da: Un cappello pieno di ciliege